Un anno fa entravamo nel duemilaventi con le attese di quelli precedenti, con la speranza di avvenimenti promettenti, coi sogni aperti su nuove esperienze, con programmi particolareggiati per non perdere neanche un giorno dell’anno che si apriva davanti a noi.

Ma poi tutto è cambiato, scuole chiuse, ospedali allo stremo, attività commerciali a singhiozzo, i luoghi della cultura chiusi, perfino gli sport ridimensionati. Poi la paura, perché il virus non colpiva solo gli altri poteva raggiungere anche noi. Siamo stati travolti nelle nostre sicurezze, siamo stati colti impreparati davanti a un nemico sconosciuto, un nemico invisibile che non si schierava da una parte o dall’altra, ma arrivava dovunque. Ridevamo dei giapponesi in piazza duomo con la mascherina e ora la teniamo ben salda sul viso da quasi un anno.

Abbiamo imparato un modo nuovo di lavorare, di fare la spesa, di fare scuola, di fare sport, di fare cose che prima erano impensabili. Siamo passati dalla condivisione delle privazioni della primavera scorsa alla ribellione egoista e violenta dei mesi autunnali.

Abbiamo imparato vocaboli mai sentiti prima, abbiamo scoperto che c’è una organizzazione mondiale della sanità, e una presenza zoppicante di sanità locali, regionali, nazionali. Ci siamo perfino trovati tutti contro tutti. Mi guardo indietro come prete e scopro che ho dovuto anche imparare a pregare in modo diverso, a celebrare Eucaristie in modo diverso.

Mi sono trovato di fronte, come molto tra voi, a modi e forme di preghiera imprevedibili. Ogni volta che vi vedo così partecipi alla Messa domenicale, mi chiedo se io e se voi saremo migliori dopo quello che abbiamo passato e che passeremo ancora per chissà quanto tempo.

Se saremo migliori non lo so, per ora so che siamo diversi nell’attesa di diventare anche migliori.