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«Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9, 5)
Secondo l'immagine del Vangelo della quarta domenica di Quaresima, l'uomo nasce cieco e nelle tenebre, mentre Dio l'avrebbe voluto nella luce. Per riacquistare pienezza di umanità, l'uomo ha bisogno di essere guarito dalla cecità originaria, ha bisogno di essere illuminato. Ciò avviene nel Battesimo, perché nel Sacramento agisce Cristo stesso. Gesù Cristo è l'unico che può risanare gli uomini dai loro difetti d'origine, donando ad essi la sua luce. Senza l'opera salvifica di Cristo l'uomo resterebbe cieco e nelle tenebre: incapace di vedere la sua identità più vera, il suo destino ultimo, il senso dell'universo e incapace di distinguere il bene dal male. In questa domenica vogliamo sottolineare in modo particolare il simbolo battesimale della candela accesa. Questa fiamma, che costantemente dobbiamo alimentare, ci ricorda la nostra vocazione cristiana: «camminare sempre come figli della luce, perseverando nella fede».

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«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32)
Il Vangelo della terza domenica di Quaresima ruota attorno alla figura di Abramo e offre un tema di riflessione di carattere battesimale che potrebbe essere indicato con queste domande: come è formato il popolo di Dio? Chi appartiene al popolo di Dio? Come vi si viene inseriti? Il giorno del nostro Battesimo siamo stati incorporati nella Chiesa, siamo cioè entrati a far parte realmente del nuovo popolo di Dio: è questo infatti uno degli effetti del Battesimo. Questa verità deve essere vissuta con la nostra consapevolezza attuale di cristiani adulti e responsabili attraverso il nostro atto di fede in Cristo. Occorre perciò aderire a Gesù Cristo e accogliere la sua Parola come verità, quella verità che ci rende figli di Dio e ci libera interiormente. In questa domenica, durante la Celebrazione Eucaristica, volendo professare la nostra appartenenza al popolo di Dio, proclameremo la nostra fede con il Simbolo Apostolico. Fin dai tempi antichi questo Credo riassumeva la fede dei nostri padri e aiutava i catecumeni ad appropriarsi dei contenuti della fede. Anche il nostro Arcivescovo, in questo tempo di Quaresima, medita il testo del Simbolo degli Apostoli entrando nelle nostre case in occasione della preghiera della sera alle ore 20.32 su Telenova e i social diocesani.

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«Chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv. 4,14)
L’acqua viva che Cristo dà alla Samaritana, come l’acqua del Battesimo, trasforma la vita dall’interno, la converte. “L’acqua” crea una nuova vita, la “vita di grazia”. Questa “vita” però può essere anche perduta, attraverso il peccato, il rifiuto, l'incredulità. È importante allora convincerci che questa novità di vita (“acqua viva”), che ci è stata data nel Battesimo, non deve mai essere considerata come qualcosa di acquisito una volta per sempre, ma esige la nostra libera e responsabile accettazione e corrispondenza. In questa seconda domenica di Quaresima, durante la celebrazione, l’atto penitenziale verrà sostituito dal rito della benedizione e aspersione dell’acqua. Saremo aspersi con l’acqua benedetta in ricordo del nostro Battesimo; rinnovati potremo accostarci degnamente alla mensa del Signore.

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«Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per esser tentato dal diavolo» (Mt 4,1)
Da sempre, nella nostra tradizione ambrosiana, la prima domenica di Quaresima è caratterizzata dalla pagina evangelica delle tentazioni di Gesù nel deserto. Questo episodio rappresenta una specie di “duello” fra Cristo e il diavolo (la personificazione del male). Gesù vince queste tentazioni attraverso alcune scelte che si concretizzano in precise rinunce. Anche per il cristiano la vita è una dura lotta contro molte tentazioni, che appunto “tentano” di distoglierci dalla retta strada. Ecco perché, in questa domenica, memori delle promesse del nostro Battesimo, siamo invitati a rinunciare a tutto ciò che si oppone a Dio.

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“Il pubblicano, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»” (Lc 18,13).
Il pubblicano, ritenuto da tutti un peccatore perché appartenente ad una categoria ritenuta peccatrice, incarna l’umiltà. Il suo è l’atteggiamento fondamentale di chi è posto davanti a Dio e la cui preghiera esprime una profonda partecipazione, con la propria miseria, alla grandezza di Dio. Anche noi, come il pubblicano, siamo peccatori. Il peccato è l’unica cosa che ci caratterizza, come creature, bisognose di tutto, bisognose della misericordia di Dio. Chi potrebbe riconoscersi senza peccato? Chi potrebbe vantarsi di aver sempre corrisposto nel modo migliore possibile ai doni di Dio, alla sua parola, al suo amore? Quest’uomo della parabola evangelica, il pubblicano, “a differenza dell’altro - il fariseo -, tornò a casa sua giustificato”, perdonato, salvato, così dice Gesù. Eppure era un peccatore; nessuno aveva considerazione di lui. La ragione è nelle parole di Gesù: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14). L’umiltà di quest’uomo lo ha condotto a riconoscere la grandezza di Dio e, di contro, la sua miseria, il suo peccato.