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“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27).
Gesù buon pastore ci conosce tutti, ad uno ad uno; a Lui occorre dare una risposta, che non può fare a meno dell’ascoltare e del seguire. Per poter ascoltare è necessario anzitutto riconoscere la sua voce di pastore, distinguere la sua voce da quella di tanti falsi pastori. Ascoltare Gesù significa seguire i suoi insegnamenti, aderire a Lui con libertà e con gioia, per non separarci più da lui. È camminare con Lui per metterci sotto la sua guida. L’ascolto e la sequela sono un gesto di amore, sono una risposta di amore. È questo un nostro preciso dovere di cristiani; altrimenti verrebbe meno il nostro essere cristiani. Anche se oggi ci sono alcuni che si autoproclamano pastori, noi sappiamo però che uno solo è il vero pastore; è Colui che ha detto: “Io sono il buon pastore”. Staccarsi da Gesù Cristo vuol dire smarrirsi, rinunciare alla salvezza stessa, trovarci ad un certo momento della vita nella più profonda tristezza, perché abbiamo abbandonato Chi ci può dare speranza. Eppure, se solo poniamo in Lui la nostra fiducia e alziamo un po’ lo sguardo dalle cose materiali, per fissare i nostri occhi nei suoi occhi, ci sentiamo accolti, custoditi, guidati e amati.

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“Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1).
Queste parole di Gesù sono per i discepoli un invito a non divenire preda dello scoraggiamento, a non lasciarsi prendere dalla paura. Egli, che per essi è il Maestro, non li vuole abbandonare senza un riferimento, un aiuto. Gesù conosce bene i discepoli e noi, sa delle loro e nostre debolezze; Egli conosce la nostra inadeguatezza, perché non siamo pronti a tutto, non siamo tenaci; c’è in noi tanta debolezza e arrendevolezza di fronte alla prima difficoltà. Eppure Gesù non ci giudica in base alle nostre capacità, a quello che riusciamo a fare. Gesù invece desidera per noi pace, gioia, serenità, anche se ci trovassimo nella condizione di smarrirci lontano da Lui. Da qui nasce l’invito alla fiducia, la fiducia in Dio. Gesù conosce il nostro cuore nella sua profondità, sa delle nostre paure, delle nostre stanchezze, delle nostre delusioni, della nostra inquietudine. A Lui nulla sfugge. Da Lui a noi viene l’invito ad abbandonarci alla sua pace, quella pace che per il credente diventa l’orizzonte entro cui abbandonare ogni paura e tristezza.

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“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»” (Gv 20,24-25).
La fede non è qualcosa di statico, immutabile, ma è pienezza di vita e di forza, è in divenire, cioè coinvolge tutta la vita di una persona. In altre parole la fede è un cammino, è la crescita di ogni uomo e donna davanti a Dio e secondo il progetto di Dio. A Tommaso, che pretendeva una prova materiale della verità della risurrezione, Gesù dice: “Non essere incredulo, ma credente”, cioè non persistere nella tua incredulità, nella tua cocciutaggine, ma credi, diventa credente. Ecco, in questo “diventa” c’è tutto un cammino di crescita per una comprensione sempre più profonda del mistero di Gesù Cristo. La prova della verità della risurrezione di Cristo dai morti è la testimonianza degli apostoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Questo loro vedere è credere. Questa testimonianza continua nell’annuncio della Chiesa. Il contenuto della fede è quello che San Giovanni enuncia alla fine del Vangelo di questa domenica: “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

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Maria di Magdala “si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove l'hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» - che significa: «Maestro!»” (Gv 20,14-16).
Oggi è Pasqua. Ma non una Pasqua qualsiasi; è la Pasqua del Signore, è la Pasqua di risurrezione. Nella Pasqua noi contempliamo Colui dal quale viene ogni principio di vita, Gesù risorto, che ci ha donato la vita, in questo mondo che tanto ci parla di morte, che tanto ci parla di miserie umane, che tanto ci parla di desolazione. È lo spettacolo tremendo delle guerre che insanguinano il nostro mondo! Ma la Pasqua non è desolazione, non è morte, è invece gioia, la gioia di Cristo risorto. E la gioia muove il nostro cuore alla speranza. Nella Liturgia di Pasqua così preghiamo il Signore: “Concedi al popolo da te redento fede salda e speranza incrollabile e donaci di attendere senza dubitare il compimento delle tue promesse”. Si chiede a Dio una speranza che non viene meno, resiste ad ogni minaccia. Allora non viviamo la Pasqua nel rammarico o nella paura; viviamola invece come segno di speranza. La speranza non delude mai. La speranza ci fa vincere la paura, la paura del silenzio di Dio, la paura che Dio non ci parli più, la paura che Dio non intervenga più nella nostra vita. Era la paura che si esprimeva nelle lacrime di Maria di Magdala mentre stava all’esterno del sepolcro “e piangeva”, dice il Vangelo di Giovanni. Quella paura però poi, per la speranza riposta in Gesù risorto, è diventata annuncio, un annuncio senza paura: “Ho visto il Signore!”. Secondo i Vangeli è la prima persona a vedere Gesù risorto. E da questo incontro Maria di Magdala ne esce trasformata; diventa messaggera della più grande speranza: Gesù è risorto. Come Maria di Magdala, anche noi dobbiamo avere il cuore aperto alla speranza, la speranza della vita, la speranza della gioia che non ha fine, la speranza che ci porta a condividere il cammino della vita gli uni con gli altri, anche se è un cammino che talvolta può essere difficile, un cammino che talvolta può sembrarci impossibile. È la speranza che viene da Gesù risorto. Con la certezza che Gesù Risorto è con noi sempre, cammina con noi, come camminava con i discepoli di Emmaus, a tutti e a ciascuno, a cominciare dalle persone ammalate e sole, va il nostro augurio di una lieta e santa Pasqua di Risurrezione.
Mons. Angelo con i Sacerdoti, le Persone consacrate e i Consigli Pastorale e per gli Affari Economici della Comunità Pastorale S. Eufemia

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«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Gv 12,13)
La sesta domenica di Quaresima è detta "Domenica delle Palme", perché si commemora l'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Ma non è sempre stato così. A Milano infatti, all'epoca del vescovo Ambrogio, la domenica precedente alla Pasqua di Risurrezione, coronava l'itinerario battesimale, attraverso il rito della "traditio symboli”, letteralmente "consegna del simbolo di fede”. Ai catecumeni veniva “consegnato” il Credo, affinché lo imparassero e ne assimilassero le verità. Il simbolo ricevuto doveva poi essere “restituito” otto giorni dopo, durante la veglia pasquale, dimostrando di averlo imparato con la mente e con il cuore. Al di là dei dati della storia, anche noi, giunti al termine del nostro itinerario quaresimale di carattere "battesimale", possiamo trarre dall'antico rito della "traditio symboli" importanti conseguenze per la nostra vita di cristiani. Come il simbolo di fede veniva “consegnato” per essere “restituito”, anche per noi la fede cristiana non è una conquista autonoma, ma ci è stata “donata” dalla Chiesa, nella quale con il Battesimo siamo stati inseriti. La fede ricevuta dunque non è opera nostra, ma è grazia e dono di Dio per noi. Dobbiamo perciò ringraziare il Signore per il dono della fede ricevuto. Questo dono bisogna inoltre “coltivarlo” e farlo proprio, mediante il nostro operare e il nostro agire, traducendo in pratica gli insegnamenti nella vita concreta.